PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - L'ISPIRAZIONE DEL CONCILIO

INTRODUZIONE

Venerabili fratelli e diletti figli, pronunziamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l'Urbe e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale.»
Era la mattina del 25 gennaio 1959. Papa Giovanni si era recato nella basilica di san Paolo fuori le Mura, a solennizzare la festa della conversione dell'"apostolo delle genti". Non dette quest'annunzio dall'altare, durante la messa. Fu a messa terminata, quando si ritirò coi cardinali che lo avevano seguito in una sala del grande monastero benedettino, che dette l'annunzio che doveva cambiare il volto della Chiesa del nostro tempo. Pochi altri, oltre il card. Tardini, che aveva tenuto il segreto, erano al corrente dell'intenzione del Papa. Tutti aspettavano dal "Papa di transizione" il disbrigo solerte, magari un po' estroso e fantastico, delle "pratiche" più urgenti riguardanti la vita e l'attività della Chiesa. Nemmeno ad un Sinodo erano preparati, ma potevano non stupirsene affatto, anche se pure per i sinodi Roma fosse rimasta da sempre, priva dell'assise plenaria del suo clero attorno al suo vescovo. Ma certo nessuno pensava ed immaginava l'eventualità e la possibilità di un Concilio.
Dal Concilio di Trento erano passati quasi quattro secoli; e quasi un secolo era trascorso dalla forzata interruzione di quello Vaticano I. Nell'ultimo Concilio della Chiesa era stata proclamata l'infallibilità del Papa, e questo aveva portato, di fatto ad accantonare l'idea che proprio insieme all'infallibilità del Papa fosse necessario sviluppare, approfondire e chiarire definitivamente la dottrina dei poteri collettivi dei vescovi nel governo della Chiesa universale. Un pontificato singolare come quello di Pio XII, con in primo piano la figura gigantesca di un Papa come lui, aveva contribuito a diffondere nei più la convinzione che proprio un Concilio, di fatto, avesse posto la Chiesa nella possibilità di fare a meno, per parecchi secoli ancora, del contributo dei Concili alla vita ecclesiale. Solo fuori d'Italia, nelle correnti teologiche più avanzate - e non di rado guardate con sospetto - era stata avanzata, e neanche molto spesso, l'idea dell'aggiornamento e della riforma che un Concilio - poco o tanto riuscito che potesse essere - provoca sempre salutarmente nella vita e nella disciplina della Chiesa.
Papa Giovanni parlò dell'annuncio del Concilio in termini tali da far pensare a una ispirazione divina. Anche lui conosceva i mali e i bisogni della Chiesa: li aveva veduti al centro, li aveva veduti, a lungo, alla periferia. Ma prima di quel misterioso momento in cui l'idea gli si accese nella mente, non aveva pensato nemmeno lui - anche perché non era nella prospettiva universale di un pontefice - all'utilità e alla necessità di un Concilio. In tutto il Giornale dell'Anima non v'è accenno ad un fatto del genere. Il dono di quell'ispirazione è tutto opera dello Spirito che volle Papa Giovanni pontefice e lo rese capace di guardare, senza paura e senza presunzione, all'immenso impegno.
Non a caso l'annunzio venne dato il 25 gennaio. Era la festa della conversione dell'«apostolo delle genti», di colui che proprio nel primo Concilio della Chiesa quello di Gerusalemme, aveva sostenuto le ragioni dei "gentili" e i loro diritti all'annunzio della "buona novella" e della salvezza. La Chiesa del secolo ventesimo si presentava a Papa Giovanni per molti aspetti, simile, negli impegni e nelle responsabilità, a quella del Concilio di Gerusalemme: doveva affrontare il mondo tradizionalmente cristiano, e, in un certo senso, "ribattezzarlo", ed affrontare, simultaneamente, il mondo pagano dei nostri giorni, e persuaderlo al Vangelo con linguaggio, spirito e metodi adatti alla sensibilità ed all'evoluzione del nostro tempo.
Nell'accettare l'ispirazione divina, Papa Giovanni fece ancora una volta un atto di umiltà. Chi ha voluto vedere nell'idea del Concilio (in verità sono stati i meno) un segno di eccessiva fiducia nelle proprie forze, se non proprio di temerarietà, non ha capito che cosa significhi un Concilio.
Chi non sente il bisogno di un Concilio pensa, naturalmente in perfetta buona fede, di poter affrontare da solo, o con gli ordinari mezzi di magistero e di ministero, i problemi complessi della Chiesa. E molte volte, in venti secoli, in realtà, i Concili, per la vita della Chiesa, non sono stati necessari. È bastata l'opera dei Papi più diversi per temperamento e carattere, dottrina e sensibilità, ad affrontare gli uomini e i problemi Papa Giovanni si è reso conto, con l'intuito che lo ha sempre guidato a vedere "presto e bene" nelle cose, che da solo non era in grado di porre un sigillo all'imponente processo di evoluzione e di assestamento della dottrina e della vita della Chiesa sotto gli stimoli e le sollecitazioni provvidenziali della scienza e della sociologia, del pensiero e della psicologia contemporanee.
Così, simultaneamente, Papa Giovanni ha annunziato il primo Sinodo come Vescovo di Roma, e il più recente Concilio come pontefice della Chiesa universale. E l'annunzio lo ha dato ai cardinali, cioè ai suoi più diretti, qualificati, determinanti collaboratori, vedendo in essi rappresentati tutti i vescovi della Chiesa sparsi per il mondo. La prima confidenza poi non era stata forse proprio al suo più diretto collaboratore, il Segretario di Stato? Chi potrà dire che anche in una novità inattesa come questa non siano state rispettate scrupolosamente tutte le procedure?
L'insistenza di Papa Giovanni, sottolineata in diverse circostanze, nell'attribuire l'idea del Concilio allo Spirito Santo, va presa come lo scrupolo legittimo di un uomo che intende non attribuire a sé stesso una decisione tanto importante. Le sue parole, nel raccontare il fatto, sono precise: «Improvvisamente, e senza alcun presentimento precedente, noi fummo illuminati da questa idea, pur nella umiltà del nostro spirito. E la certezza che ci provenisse dal Cielo ci incoraggiò a tal punto che, per quanto consci delle nostre umane limitazioni, ci mettemmo all'opera subito». Un'altra volta precisò che quell'idea era "germogliata" nel suo spirito "come il primo fiore di una precoce primavera".
Che il "fiore" appartenesse davvero ad una "primavera precoce" lo dimostrò anche la reazione di Tardini prima e dei cardinali riuniti poi. Per un bel po' di tempo, tutti rimasero muti, alcuni esterrefatti, a quell'annunzio. Tardini pare dicesse, senza essere in grado di formulare altre parole: «Un Concilio, già, Padre Santo... Un Concilio, già». Il silenzio, subito, accolse l'annunzio a san Paolo fuori le Mura: tutti erano lontani dall'immaginare di una cosa tanto impegnativa. Alcuni avevano già imparato a conoscere le "improvvisate" di Papa Giovanni; ma un Concilio non lo sospettava nessuno. Papa Giovanni, nel discorsetto che stava tenendo ai cardinali, era stato d'altronde, come tante altre volte, brillantemente normale. Aveva posto l'accento sul fatto che il mondo guardava al nuovo Papa con reazioni prevedibili: «Siamo consapevoli che l'opera del nuovo Pontefice è osservata in molti ambienti con grande amicizia e devozione, in altri con ostilità e incertezza». Molti, a quel punto, aspettavano l'annunzio di qualche enciclica, di un documento qualsiasi che richiamasse il mondo ai principi fondamentali del Vangelo. Papa Giovanni proseguì: «Se il Papa allarga lo sguardo suo sul mondo tutto intero, oh, lo spettacolo! Lieto da una parte dove la grazia di Cristo continua a moltiplicare frutti e portenti di spirituale devozione, di salute, di santità in tutto il mondo; e triste dall'altra innanzi all'abuso e al compromesso della libertà dell'uomo, che non conosce i cieli aperti e si rifiuta alla fede in Cristo, Figlio di Dio, Redentore del Mondo e Fondatore della Santa Chiesa».
Poi, all'improvviso, l'annunzio inatteso.
Magistero e ministero si univano, in un impegno come quello del Concilio: ed erano impegno di tutta la gerarchia, non solo del Papa. In un certo senso, il Concilio era la risposta della Chiesa alla società delle grandi democrazie. La Chiesa, che non è una società democratica, concedeva, per la intuizione lungimirante di Papa Giovanni, il massimo della «democrazia» possibile all'interno di se stessa, indicendo il Concilio, cioè l'assemblea suprema in cui tutti i vescovi della terra avrebbero potuto avere la parola e portare il contributo della loro esperienza.
Un'immagine di Papa Giovanni XXIII

NEL SEGNO DELLA SPERANZA

Solo più tardi, conversando con intimi collaboratori, Papa Giovanni fece sapere quanto lo avesse colpito la sorpresa, il silenzio, lo stupore dei cardinali all'annunzio del Concilio. Lo fece bonariamente, con quella finezza di carità, non priva di una trasparenza d'umorismo, che lo ha sempre aiutato a definire cose ardue e a superare situazioni imbarazzanti. Ma lì, a San Paolo, il suo discorso si limitò a dare la notizia; e si chiuse nell'invito a tutti perché collaborassero con amore.
«Da tutti - egli disse - imploriamo un buon inizio, continuazione e felice successo di questi propositi di forte lavoro, a lume, a edificazione ed a letizia di tutto il popolo cristiano, a rinnovato invito ai fedeli delle comunità separate a seguirci anch'esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime anelano da tutti i punti della terra». Poi, rivolto con particolare slancio ai cardinali, concluse: «Voi siete la mia corona, la mia gioia, se la vostra fede, che dal principio del Vangelo era predicata nel mondo intero, permane nell'amore e nella santità. Oh, quale saluto è questo, interamente degno della nostra famiglia spirituale! Amore e santità: un saluto e un augurio!».
Un Concilio ecumenico: l'aggettivo qualificava in partenza il grande avvenimento a cui la Chiesa si accingeva. Ed era un aggettivo che non significava soltanto universale, ma che riguardava, con esplicita volontà del Papa, il problema dell'unità fra i cristiani. Colui che in Oriente aveva avuto modo, in circa vent'anni, di misurare l'abisso e lo squallore della divisione fra i credenti nello stesso Cristo, sapeva bene che anche un Concilio prevalentemente «pastorale» - cioè volto a chiarire e risolvere soprattutto i problemi interni della Chiesa - non poteva non porsi anche il problema dei contatti con i «fratelli separati»: perché una sola è la Chiesa di Cristo, e anche i problemi «interni» di una confessione coincidono sempre almeno nella sostanza, coi problemi di tutte le altre.
Papa Giovanni aveva intuito, e si accingeva ad operare, nel segno della speranza. Della speranza teologale, virtù coessenziale al credo cristiano. Nessuno più di lui - arricchito nativamente da un profondo ed inviolabile ottimismo naturale - era in grado di dare all'ottimismo naturale suo e di tutti gli altri «uomini di buona volontà», il sigillo e il battesimo della speranza cristiana che resta misterioso dono di Dio.
Perché negare che molti, proprio attorno a Papa Giovanni, non tardarono, dopo il primo stupore, a manifestare il loro disappunto ed il loro pessimismo. L'idea sembrava loro temeraria, non avevano lo stesso ottimismo naturale, e la speranza, probabilmente, la spendevano per cose meno difficili.
Ma questo era il meno che potesse accadere. A Concilio Vaticano II concluso si è visto che il dibattito tra i padri, inevitabilmente schierati in gruppi di diverso vedere e sentire, se non addirittura nettamente opposti gli uni agli altri, è stato assai meno drammatico, molto più onesto, da ambedue le parti, ad esempio, che quello del Vaticano I. Qualcuno ha temuto lo scisma, qualcun altro l'eresia. E non ci sono stati né scismi né eresie, mentre dal Vaticano I almeno uscirono, ostinati fino ai nostri giorni, i «vecchi cattolici».
La scelta del proprio magistero, in Papa Giovanni, è stata dunque un atto di umiltà e un atto di coraggio. E un atto di fedeltà alla propria vocazione di «servizio», un atto di stima assoluta per i talenti, l'esperienza, la dottrina e lo zelo di tutti i vescovi. Il primo segno del vero maestro non è forse quello di rispettare in partenza le idee degli altri? Papa Giovanni ha rispettato le idee e i punti di vista di tutti. Durante la prima sessione del Concilio non è intervenuto che una volta a decidere in favore della maggioranza - cioè in favore di una regola liberamente scelta da tutti - e si è dato il caso che proprio con quell'intervento (a proposito dello schema sulle «fonti della Rivelazione») il Concilio uscisse da un'impasse che ne minacciava la libertà e l'andamento legittimo.
Alden Hacht, un protestante, così commenta, dal suo punto di vista, questo consesso universale: «L'annuncio del Concilio ecumenico suscitò in tutto il mondo un tale fervore di speranze e d'iniziative, che forse nemmeno lo stesso Papa aveva immaginato. Tutti i cristiani già da tempo stavano facendo tentativi per l'unione, di fronte alla minaccia sempre crescente del comunismo ateo. Da parte loro gli anglicani, i protestanti, e qualche chiesa di rito greco-ortodosso avevano fatto approcci tra loro in vista dell'unità, ma siccome lasciavano fuori una buona metà di cristiani nel mondo, i loro tentativi non sembravano destinati ad avere successo. Perciò l'annuncio di un Concilio ecumenico sollevò una ondata di entusiasmo fra tutti i cristiani nel mondo, indescrivibile e illimitato, poiché nessuno rifletteva sulle difficoltà delle questioni teologiche che si opponevano alla completa realizzazione di questa unione».
Le difficoltà non sfuggivano, comunque, alle parti più direttamente e, magari, apertamente polemiche delle varie Chiese. Le videro e se le prospettarono, realisticamente, com'era giusto, soprattutto alcuni cardinali, che non ne fecero mistero, pur esprimendo le loro riserve nel giro delle classiche circolazioni del linguaggio curiale.
È ancora Hacht che scrive: «In realtà, la responsabilità era così grave che non pochi cardinali del Sacro Collegio furono contrari o molto pessimisti. Temevano che, avendo il solo annuncio del Concilio suscitato tante speranze, tutto il lavoro del Concilio stesso sarebbe stato considerato un fallimento se si fosse ottenuto solo qualche risultato. E sapevano benissimo che sarebbe stato impossibile risolvere tutti i problemi riguardanti il ritorno dei dissidenti sotto un'unica Chiesa e quindi sarebbe stato già un buon risultato se si fosse ottenuto qualche riavvicinamento. Lo stesso card. Tardini, che in un primo tempo sembrava favorevole all'idea di un Concilio, successivamente avrebbe voluto rimandarlo ad altri tempi. Ma Papa Giovanni non era di questo parere. Anzi, il favore popolare col quale era stato accolto il suo annuncio lo rafforzava nella convinzione di agire per il meglio. Beninteso, non si nascondeva le difficoltà, ed era il primo ad ammettere che sarebbe stato assurdo pensare di ottenere immediatamente una unione completa per quanto riguardava i lavori del Concilio il suo punto di vista, che doveva costituire la direttiva principale, era molto semplice: far sì che i cristiani non si guardassero più fra loro con diffidenza ma desiderassero invece la conciliazione».
Qualcuno sperò che col tempo l'idea cadesse dalla mente del Papa. Evidentemente non conoscevano Roncalli, non sapevano che se era disposto a rinunziare con pronta umiltà a vedute personali - ne fa fede chiaramente Il Giornale dell'Anima - altrettanto era irremovibile per quelle che sapeva essere ispirazione di Dio. Certo, si sentì molto solo, nella sua stessa casa; e non gli saranno mancate le ore della tristezza, se non dell'angoscia; ma tutto ciò lo ha portato da solo, con pudore e silenzio, lasciandone trapelare nel diario solo quanto occorreva per tener presenti a se stesso gli impegni che anche le delusioni gli imponevano d'approfondire e santificare.
D'altronde sapeva d'aver con sé la grande speranza dei poveri, dei semplici, nella Chiesa e fuori della Chiesa; ed era su costoro che contava, anche se erano proprio loro a non potersi render conto della fatica della grande impresa. Quello che nei secoli passati erano state, per la «difesa» del cristianesimo, le crociate, adesso, per la dilatazione della Chiesa e per l'evangelizzazione di tutti gli uomini, lo era il Concilio, cioè l'esatto contrario delle crociate d'ogni genere, come vedremo meglio più avanti. Fedele al suo proposito personale di «cercare piuttosto ciò che unisce che ciò che divide gli uomini», Roncalli, diventato Papa Giovanni, aveva adesso la gioia di poter applicare su scala universale quel metodo che scaturiva insieme dal suo ottimismo e dalla sua buona volontà.
Giovanni XXIII presiede la Cappella papale a San Paolo nel 1959

UN CREATORE DI CULTURA

Immediatamente non si rese conto nemmeno lui - è molto probabile - di che cosa stava liberando e mettendo in circolazione nella Chiesa. Sapeva soltanto che su molte cose fondamentali, di qua dai dogmi, nel libero esercizio della dottrina e dei metodi che da essa debbono scaturire a seconda dei tempi, era necessario un aumento di teologia, di cultura viva. Egli non era un uomo di cultura nel senso corrente, beato lui. Secondo la felice distinzione del card. Lercaro, egli era più un «creatore» che un «consumatore» di cultura.
Il professore di patrologia, lo studioso dei movimenti sociali della Chiesa, lo storico e il biografo di san Carlo Borromeo e di Radini Tedeschi, aveva fatto soltanto il «noviziato» della cultura, prima di ascendere sulla cattedra di Pietro. La cultura, cattolica e non cattolica, gli diventava debitrice adesso, dal momento della indizione del Concilio, come gli sarà ancora debitrice più tardi, al momento della Mater et Magistra e soprattutto della Pacem in terris.
Il card. Lercaro ha precisato molto bene questo trovarsi a perfetto agio di Papa Giovanni nella verità, e quindi anche di fronte ai rischi di cui non va mai esente la cultura viva: «Nonostante ogni nostra disattenzione e ogni nostro rifiuto, egli non ha rinunziato mai, nemmeno per un momento alla pretesa di insegnare, in base alla convinzione espressa nel primo anniversario dell'elezione: "È su questa nave che si dirige la vita e la storia del mondo: è su questa continuazione di luce, di forza e di grazia che si perenna tutto ciò che, anche da un punto di vista semplicemente umano, è irradiazione di scienza, di progresso, di verace civiltà cristiana". Se egli avesse avuto in grado eccezionale questa convinzione e questa pretesa di dover essere e di poter essere il Dottore universale, come avrebbe potuto osare di convocare dopo cento anni un nuovo Concilio, a meno di tre mesi dalla sua elezione? Chi, al suo posto, per quanto sicuro fosse della bontà della cosa, non avrebbe piuttosto pensato di doverci riflettere ancora, almeno fino a quando non avesse potuto rendersi meglio conto dello stato reale della Chiesa e delle possibili conseguenze di una decisione tanto capitale ed insolita? Non si avverte abbastanza che, già per sé, questo solo confronto di date pone in termini stringenti un dilemma tremendo: o Papa Giovanni è stato un precipitoso temerario, la cui incultura e inesperienza arrivano al paradosso: e allora non sarebbe più possibile parlare seriamente di una sua santità, perché un solo fatto di questa dimensione investirebbe negativamente tutta la sua personalità spirituale e religiosa, distruggerebbe tutto il castello delle sue supposte virtù morali e teologali; o veramente Papa Giovanni ha fatto questo con un'audacia calcolata, che pur non potendo ovviamente prevedere tutti i dettagli e neppure i contenuti materiali di certi sviluppi futuri, però sostanzialmente coglieva i nodi teologici e storici della situazione ecclesiale e dell'arco del suo pontificato: e allora bisogna ammettere che egli era conscio di poter contare, non solo sulla sincerità dell'ispirazione che lo muoveva, ma anche sulla fondatezza di alcune sue tesi di dottrina e di alcuni suoi giudizi storici come capaci di mediare sul terreno concreto e istituzionale i giganteschi problemi che la sua decisione coinvolgeva».

«LA SANTA FOLLIA»

Qualcuno ha parlato, e continua a parlare, a proposito del Concilio, anche davanti alle conseguenze positive innegabili che ha avuto nelle sue quattro sessioni e nelle sue sedici leggi, di "santa follia", dando più peso al sostantivo che all'aggettivo. Ma un giudizio del genere non fa che confermare l'urgenza della grande riforma cattolica già in atto. Occorreva riporre in causa non solo certe strutture ed alcuni metodi sconfessati o superati dalla storia e dal tempo; occorreva soprattutto chiarire alla radice certe verità non a sufficienza sviluppate in passato, in modo che proprio all'interno della Chiesa non si dovesse continuare a credere debolezza la forza e forza la debolezza, ragione l'imposizione e torto il silenzio.
Se "follia" c'è stata - e, per fortuna, rimane - si tratta di una "follia" genuinamente evangelica che tanto la maggioranza dei credenti che la maggior parte degli uomini hanno riconosciuto come il quid che l'umanità attendeva, più o meno consapevolmente, dalla Chiesa del nostro tempo. Come tutti i veri testimoni, come tutti i "profeti disarmati", anche Papa Giovanni, soprattutto con il Concilio, ha rinnovato quello "scandalo evangelico" che pone sempre da capo la Chiesa in "servizio" per tutti gli uomini.
D'altronde, la decisione del Vaticano II non è mai stata, nel pensiero di Papa Giovanni, una sfida o una squalifica per qualcuno e per qualcosa. È questo che conta, che rende legittimo il processo irreversibile e fecondo, e che ha fatto "conciliare" la Chiesa, senza più alcun pericolo, come nei secoli passati, di "conciliarismo".
È stato Papa Giovanni stesso a togliere certi timori: «Noi non vogliamo intentare un processo al passato. Non vogliamo nemmeno dimostrare quel che era giusto e quel ch'era invece sbagliato. Ma quel che vogliamo dire è questo: ritorniamo insieme; poniamo fine alle nostre divisioni».
Papa Giovanni ammetteva ed ammirava, negli uomini che dovevano rispondere di organismi culturali e disciplinari, la prudenza massima, qualche volta intransigente. Personalmente, però, il suo "miracolo" - come il mondo lo ha giudicato e definito - continuava ad essere quello di prendere contatti, di rimuovere inutili ostacoli, di abolire termini e linguaggi che potevano continuare più a dividere che ad unire.
Anche nelle udienze solenni ci tenne a rivelare un carattere in qualche modo ecumenico. Nemmeno un mese dopo l'elezione, ricevette Mohamed Reza Pahlevi, imperatore dell'Iran: era il 1° dicembre 1958. Si trattava di un musulmano, che aveva chiesto di poter presentare i suoi omaggi al capo dei cattolici, ed era stato subito esaudito. Papa Giovanni si ricordava bene che tono avevano sempre finito per far assumere alla folla udienze del genere nel passato, quando la lotta anticlericale non cercava che di poter insultare il Papa e la Chiesa.
Un altro imperatore musulmano, molti anni prima, era stato in udienza in Vaticano; ma la folla che aveva assistito al suo fastoso passaggio in piazza san Pietro aveva subito contrapposto i due troni, addirittura le due religioni, gridando ripetutamente: «Viva lo Scià!», «Abbasso il Papa!».
Questa volta dovevano essere cambiate davvero molte cose: la folla, riunita sulla piazza, batteva le mani a tutti e due, non gridava "abbasso" a nessuno. Papa Giovanni aveva cominciato a farsi conoscere con le prime novità di spirito e di termini, alle quali il popolo è sempre più attento e sensibile di quanto non si pensi; lo Scià era molto popolare, non tanto perché se ne conoscessero alcune impostazioni di coraggiosa riforma sociale del proprio paese - riforma che sarebbe andata precisandosi e circostanziandosi negli anni seguenti - quanto perché marito della "imperatrice dagli occhi tristi", che poco dopo avrebbe ripudiato per incapacità a dargli un erede al trono.
Papa Giovanni trovò modo di mettere immediatamente a suo agio il visitatore, rammaricandosi oltre tutto, di non aver fatto una visita nell'Iran quand'era stato Delegato in Turchia. Prese atto dell'illuminata benevolenza con cui in quel paese l'imperatore trattava i gruppi e le associazioni cattoliche. L'udienza non affrontò nessun problema fondamentale, ma rivelò quel calore umano che vale sempre come premessa ad ogni possibilità di collaborazione su ogni questione importante.
Durante quei cinque anni di pontificato sarebbero venuti in udienza innumerevoli altri capi di Stato e uomini politici responsabili della politica internazionale. E tutti avrebbero trovato un uomo un "uomo mandato da Dio" sempre capace di riaccendere in essi, nella maniera più discreta ed immediata, il senso delle cose fondamentali. Papa Giovanni non ha sempre dato alle proprie udienze un rigoroso significato prestabilito: quando non ne avevano né potevano averne, bastava ad esse il valore d'incontro fra due uomini responsabili di altri uomini; quando lo avevano quasi automaticamente, un significato e un valore, Papa Giovanni sapeva dare al fatto e alle parole con cui si realizzavano una misura sempre giusta. Non ha mai fatto calcoli, non ha mai strumentalizzato quegli incontri, che per lui, così curioso ed insieme rispettoso degli uomini, valevano prima di tutto per sé stessi e lo riempivano sempre di ricordi, di entusiasmi. Papa Giovanni ha avuto in dono una limpida e cordiale fantasia, e l'ha usata come un grande soccorso per superare e trasfigurare, molte volte, il peso degli obblighi, le leggi della routine diplomatica e del protocollo. Molti dei suoi più illustri visitatori sono stati colti dal fotografo con un grande sorriso sul volto: il Papa aveva trovato modo di sbloccare una situazione che tendeva per sé a farsi rigida più del dovuto.
Il sorriso più squillante è rimasto, nelle fotografie di documentazione, quello del presidente americano Dwigt Eisenhower. Non è facile sapere con esattezza perché il presidente si sia lasciato andare a quella risata, tutta americana. Eisenhower ricordò al Papa il loro primo incontro a Parigi; allora uno era generale, l'altro Nunzio. «Abbiamo fatto della strada! - commentò sorridendo Papa Giovanni. - Voi siete presidente di una grande repubblica, io il vescovo di Roma!». Si disse lieto, poi, che il figlio di Eisenhower, che accompagnava il padre, si chiamasse Giovanni come lui, e, con protocollo del tutto nuovo, lo incaricò di portare i suoi saluti al presidente della repubblica turca.

IL PRIMO NATALE DEDICATO AI BAMBINI

Il suo primo Natale da Papa Roncalli lo volle dedicare anche ai bambini; e scelse quelli più adatti a simboleggiare l'aristocrazia del regno di Dio: i bimbi ammalati dell'Ospedale Gesù Bambino. Due ospedali raccolsero quel giorno la testimonianza della sua pietà paterna e delicata ma certo in quello di Gesù Bambino il suo cuore s'aperse con particolare slancio a comunicare coi piccoli, a consolarli e benedirli; e non mancò di far sbocciare il sorriso anche sulle loro labbra. Passo fra i lettini bianchi, si fermò presso ciascuno, intavolò una conversazione piena di confidenza e di semplicità.
I bambini hanno sempre occupato un posto di privilegio nel cuore di Papa Giovanni. Non tanto perché egli si sia trattenuto coi bambini più che con gli altri. Chi ne facesse un amico particolare dei fanciulli, non sarebbe forse del tutto nel vero. Ha piuttosto saputo trovare il cuore dei piccoli di istinto, più che con manifestazioni esteriori di tenerezza, con carezze e slanci visibili. Papa Giovanni non si è mai permesso di abbracciare un bambino, e non l'ha fatto nemmeno con la piccola Chaterine Hudson, condannata a morire di cancro. Non occorre credere che per un uomo come Roncalli occorressero i segni tradizionali della tenerezza e dell'affetto per conquistare i piccoli e entrare con naturalezza nel loro cuore e nel loro linguaggio. L'infanzia interiore - che è stato il dono intimo la fedeltà più profonda a cui Papa Giovanni è rimasto fedele per tutta la vita - non ha bisogno di questo metro: ha strumenti ed intuizioni, rapporti e possibilità di sintonia intima che sfuggiranno sempre ai più. Gli accenni ai bambini sono nei documenti del Papa, o tradizionalmente entusiastici, come nella lettera al fratello Zaverio, o evangelicamente simbolici. L'infanzia diventa misura dello spirito, richiamo all'innocenza, esame di coscienza sulla grande parola del Signore: «Se non tornerete come fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli».
E non sembra affatto un caso che in una delle ultime udienze pubbliche concesse in san Pietro il 4 maggio 1963, Papa Giovanni abbia ripetuto il simbolo dell'infanzia come misura del cristiano ideale: «Dicono che quando si diventa vecchi e stravecchi si torna un po' bambini. Che bello tornare bambini! Se non si possiede quell'innocenza e quella semplicità, è più difficile entrare nel Regno dei Cieli!». Il vecchio Papa ultraottantenne salutava la Chiesa e la vita con un'immagine evangelica a cui era sempre rimasto fedele, e nella quale, più passavano gli anni e più aveva saputo travasarsi con perseveranza e letizia.
L'innocenza ferita poi lo commuoveva come un mistero che occorre accettare come tutti i misteri, ma che chiede al cuore del credente una partecipazione spirituale assai più immediata, secondo la parola del Signore che dice: «Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che lo avete fatto».
Così nelle funzioni penitenziali di san Lorenzo al Verano, il 1° marzo, e di santa Prisca, il 24 marzo; l'esempio della penitenza quaresimale sbocciava poi nell'esempio della gioia pasquale, che gli riuniva attorno la maggior parte del gregge nella gloria dell'alleluia. Era questa la sua pedagogia di vescovo, e sempre collegata, da scelte precise e inattese, con la pedagogia di pontefice universale. Toccherà allo storico più provveduto e documentato, al momento giusto, non trascurare questo perenne rapporto che Papa Giovanni ha saputo stabilire e mantenere nella propria vita, e darne la misura esemplare dal lato pastorale, e indicarne il valore ascetico e pedagogico nello stesso tempo.
Roncalli non ha fatto solo il Papa, perché era convinto che solo facendo bene il Vescovo - il Vescovo della sua città specifica, il pastore del suo popolo romano - gli diventava sempre più possibile fare il pastore di tutti i credenti, e diventare il padre di tutti gli uomini, secondo la investitura ricevuta con l'elezione.
Il suo occhio restava un occhio realistico, e la sua parola toccava i problemi più scottanti con discrezione, ma anche con precisione. Nell'udienza concessa il 30 gennaio 1959 all'Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, presentatigli dal card. Siri, Papa Giovanni disse: «Sappiamo bene che non mancano preoccupazioni circa i problemi gravi per quanti partecipano alla produzione industriale: problemi di coscienza e problemi di fraternità umana e cristiana. Erroneo e funesto nelle sue conseguenze - diceva già il Santo Padre Pio XII il 7 maggio 1949 - dura il pregiudizio disgraziatamente troppo diffuso, che vede nella produzione un contrasto irriducibile di interessi divergenti... Imprenditori, dirigenti, lavoratori non sono, non debbono essere, aggiungiamo noi, antagonisti inconciliabili. Sono cooperatori in un'opera comune, che domanda prima di tutto mutua comprensione e sforzo sincero di superamento della tentazione e dell'incentivo di cercare ciascuno il proprio tornaconto, a detrimento degli altri partecipanti al comune sforzo e lavoro».
Il 10 febbraio, ricevendo i predicatori della quaresima per il rituale incontro, si premurava di offrire loro soprattutto un invito alla semplicità nell'annunzio della parola di Dio: «La semplicità è il grande dono del predicatore, che ricerca la via più sicura per toccare il fondo delle coscienze. Semplicità non è parlare a vanvera, o a braccio, come si dice a Roma: essa richiede seria preparazione di preghiera e di studio. Essa è esatta direzione del pensiero al fine che si vuole raggiungere; misura del tempo messo a disposizione, tanto quanto basta all'istruzione dei fedeli, e non alla delizia dell'ascoltare se stessi. La semplicità non accarezza la preoccupazione di fare bella figura né di ricercare la parola tornita, che fa scattare l'applauso: essa rende anzi timorosi di ciò che può arrestare il moto della grazia nelle anime. Ricordate le parole di san Bernardo che dice come preferisca ascoltare la voce del predicatore che muova non all'applauso per se stesso ma al pianto chi ascolta».
Ma era soprattutto la carità che desiderava tralucesse dalla parola di chi annunzia il Vangelo: «Occorre, infine, ripeterlo a noi che dobbiamo essere gli apostoli più convinti della carità? Esserlo, diremmo, ostinatamente?».
Giovanni XXIII con il neo-eletto vescovo Monsignor Righi Lambertini

Visita pastorale di Giovanni XXIII in una parrocchia romana

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