INTRODUZIONE
Venerabili fratelli e
diletti figli, pronunziamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione,
ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della
duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l'Urbe e di un Concilio
Ecumenico per la Chiesa universale.»
Era la mattina del 25 gennaio
1959. Papa Giovanni si era recato nella basilica di san Paolo fuori le Mura, a
solennizzare la festa della conversione dell'"apostolo delle genti". Non dette
quest'annunzio dall'altare, durante la messa. Fu a messa terminata, quando si
ritirò coi cardinali che lo avevano seguito in una sala del grande
monastero benedettino, che dette l'annunzio che doveva cambiare il volto della
Chiesa del nostro tempo. Pochi altri, oltre il card. Tardini, che aveva tenuto
il segreto, erano al corrente dell'intenzione del Papa. Tutti aspettavano dal
"Papa di transizione" il disbrigo solerte, magari un po' estroso e fantastico,
delle "pratiche" più urgenti riguardanti la vita e l'attività
della Chiesa. Nemmeno ad un Sinodo erano preparati, ma potevano non stupirsene
affatto, anche se pure per i sinodi Roma fosse rimasta da sempre, priva
dell'assise plenaria del suo clero attorno al suo vescovo. Ma certo nessuno
pensava ed immaginava l'eventualità e la possibilità di un
Concilio.
Dal Concilio di Trento erano passati quasi quattro secoli; e
quasi un secolo era trascorso dalla forzata interruzione di quello Vaticano I.
Nell'ultimo Concilio della Chiesa era stata proclamata l'infallibilità
del Papa, e questo aveva portato, di fatto ad accantonare l'idea che proprio
insieme all'infallibilità del Papa fosse necessario sviluppare,
approfondire e chiarire definitivamente la dottrina dei poteri collettivi dei
vescovi nel governo della Chiesa universale. Un pontificato singolare come
quello di Pio XII, con in primo piano la figura gigantesca di un Papa come lui,
aveva contribuito a diffondere nei più la convinzione che proprio un
Concilio, di fatto, avesse posto la Chiesa nella possibilità di fare a
meno, per parecchi secoli ancora, del contributo dei Concili alla vita
ecclesiale. Solo fuori d'Italia, nelle correnti teologiche più avanzate -
e non di rado guardate con sospetto - era stata avanzata, e neanche molto
spesso, l'idea dell'aggiornamento e della riforma che un Concilio - poco o tanto
riuscito che potesse essere - provoca sempre salutarmente nella vita e nella
disciplina della Chiesa.
Papa Giovanni parlò dell'annuncio del
Concilio in termini tali da far pensare a una ispirazione divina. Anche lui
conosceva i mali e i bisogni della Chiesa: li aveva veduti al centro, li aveva
veduti, a lungo, alla periferia. Ma prima di quel misterioso momento in cui
l'idea gli si accese nella mente, non aveva pensato nemmeno lui - anche
perché non era nella prospettiva universale di un pontefice -
all'utilità e alla necessità di un Concilio. In tutto il Giornale
dell'Anima non v'è accenno ad un fatto del genere. Il dono di
quell'ispirazione è tutto opera dello Spirito che volle Papa Giovanni
pontefice e lo rese capace di guardare, senza paura e senza presunzione,
all'immenso impegno.
Non a caso l'annunzio venne dato il 25 gennaio. Era la
festa della conversione dell'«apostolo delle genti», di colui che
proprio nel primo Concilio della Chiesa quello di Gerusalemme, aveva sostenuto
le ragioni dei "gentili" e i loro diritti all'annunzio della "buona novella" e
della salvezza. La Chiesa del secolo ventesimo si presentava a Papa Giovanni per
molti aspetti, simile, negli impegni e nelle responsabilità, a quella del
Concilio di Gerusalemme: doveva affrontare il mondo tradizionalmente cristiano,
e, in un certo senso, "ribattezzarlo", ed affrontare, simultaneamente, il mondo
pagano dei nostri giorni, e persuaderlo al Vangelo con linguaggio, spirito e
metodi adatti alla sensibilità ed all'evoluzione del nostro
tempo.
Nell'accettare l'ispirazione divina, Papa Giovanni fece ancora una
volta un atto di umiltà. Chi ha voluto vedere nell'idea del Concilio (in
verità sono stati i meno) un segno di eccessiva fiducia nelle proprie
forze, se non proprio di temerarietà, non ha capito che cosa significhi
un Concilio.
Chi non sente il bisogno di un Concilio pensa, naturalmente in
perfetta buona fede, di poter affrontare da solo, o con gli ordinari mezzi di
magistero e di ministero, i problemi complessi della Chiesa. E molte volte, in
venti secoli, in realtà, i Concili, per la vita della Chiesa, non sono
stati necessari. È bastata l'opera dei Papi più diversi per temperamento
e carattere, dottrina e sensibilità, ad affrontare gli uomini e i
problemi Papa Giovanni si è reso conto, con l'intuito che lo ha sempre
guidato a vedere "presto e bene" nelle cose, che da solo non era in grado di
porre un sigillo all'imponente processo di evoluzione e di assestamento della
dottrina e della vita della Chiesa sotto gli stimoli e le sollecitazioni
provvidenziali della scienza e della sociologia, del pensiero e della psicologia
contemporanee.
Così, simultaneamente, Papa Giovanni ha annunziato il
primo Sinodo come Vescovo di Roma, e il più recente Concilio come
pontefice della Chiesa universale. E l'annunzio lo ha dato ai cardinali,
cioè ai suoi più diretti, qualificati, determinanti collaboratori,
vedendo in essi rappresentati tutti i vescovi della Chiesa sparsi per il mondo.
La prima confidenza poi non era stata forse proprio al suo più diretto
collaboratore, il Segretario di Stato? Chi potrà dire che anche in una
novità inattesa come questa non siano state rispettate scrupolosamente
tutte le procedure?
L'insistenza di Papa Giovanni, sottolineata in diverse
circostanze, nell'attribuire l'idea del Concilio allo Spirito Santo, va presa
come lo scrupolo legittimo di un uomo che intende non attribuire a sé
stesso una decisione tanto importante. Le sue parole, nel raccontare il fatto,
sono precise: «Improvvisamente, e senza alcun presentimento precedente, noi
fummo illuminati da questa idea, pur nella umiltà del nostro spirito. E
la certezza che ci provenisse dal Cielo ci incoraggiò a tal punto che,
per quanto consci delle nostre umane limitazioni, ci mettemmo all'opera
subito». Un'altra volta precisò che quell'idea era "germogliata" nel
suo spirito "come il primo fiore di una precoce primavera".
Che il "fiore"
appartenesse davvero ad una "primavera precoce" lo dimostrò anche la
reazione di Tardini prima e dei cardinali riuniti poi. Per un bel po' di tempo,
tutti rimasero muti, alcuni esterrefatti, a quell'annunzio. Tardini pare
dicesse, senza essere in grado di formulare altre parole: «Un Concilio,
già, Padre Santo... Un Concilio, già». Il silenzio, subito,
accolse l'annunzio a san Paolo fuori le Mura: tutti erano lontani
dall'immaginare di una cosa tanto impegnativa. Alcuni avevano già
imparato a conoscere le "improvvisate" di Papa Giovanni; ma un Concilio non lo
sospettava nessuno. Papa Giovanni, nel discorsetto che stava tenendo ai
cardinali, era stato d'altronde, come tante altre volte, brillantemente normale.
Aveva posto l'accento sul fatto che il mondo guardava al nuovo Papa con reazioni
prevedibili: «Siamo consapevoli che l'opera del nuovo Pontefice è
osservata in molti ambienti con grande amicizia e devozione, in altri con
ostilità e incertezza». Molti, a quel punto, aspettavano l'annunzio
di qualche enciclica, di un documento qualsiasi che richiamasse il mondo ai
principi fondamentali del Vangelo. Papa Giovanni proseguì: «Se il
Papa allarga lo sguardo suo sul mondo tutto intero, oh, lo spettacolo! Lieto da
una parte dove la grazia di Cristo continua a moltiplicare frutti e portenti di
spirituale devozione, di salute, di santità in tutto il mondo; e triste
dall'altra innanzi all'abuso e al compromesso della libertà dell'uomo,
che non conosce i cieli aperti e si rifiuta alla fede in Cristo, Figlio di Dio,
Redentore del Mondo e Fondatore della Santa Chiesa».
Poi,
all'improvviso, l'annunzio inatteso.
Magistero e ministero si univano, in
un impegno come quello del Concilio: ed erano impegno di tutta la gerarchia, non
solo del Papa. In un certo senso, il Concilio era la risposta della Chiesa alla
società delle grandi democrazie. La Chiesa, che non è una
società democratica, concedeva, per la intuizione lungimirante di Papa
Giovanni, il massimo della «democrazia» possibile all'interno di se
stessa, indicendo il Concilio, cioè l'assemblea suprema in cui tutti i
vescovi della terra avrebbero potuto avere la parola e portare il contributo
della loro esperienza.
Un'immagine di Papa Giovanni XXIII
NEL SEGNO DELLA SPERANZA
Solo più tardi, conversando con intimi
collaboratori, Papa Giovanni fece sapere quanto lo avesse colpito la sorpresa,
il silenzio, lo stupore dei cardinali all'annunzio del Concilio. Lo fece
bonariamente, con quella finezza di carità, non priva di una trasparenza
d'umorismo, che lo ha sempre aiutato a definire cose ardue e a superare
situazioni imbarazzanti. Ma lì, a San Paolo, il suo discorso si
limitò a dare la notizia; e si chiuse nell'invito a tutti perché
collaborassero con amore.
«Da tutti - egli disse - imploriamo un buon
inizio, continuazione e felice successo di questi propositi di forte lavoro, a
lume, a edificazione ed a letizia di tutto il popolo cristiano, a rinnovato
invito ai fedeli delle comunità separate a seguirci anch'esse amabilmente
in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime anelano da
tutti i punti della terra». Poi, rivolto con particolare slancio ai
cardinali, concluse: «Voi siete la mia corona, la mia gioia, se la vostra
fede, che dal principio del Vangelo era predicata nel mondo intero, permane
nell'amore e nella santità. Oh, quale saluto è questo, interamente
degno della nostra famiglia spirituale! Amore e santità: un saluto e un
augurio!».
Un Concilio ecumenico: l'aggettivo qualificava in partenza
il grande avvenimento a cui la Chiesa si accingeva. Ed era un aggettivo che non
significava soltanto universale, ma che riguardava, con esplicita volontà
del Papa, il problema dell'unità fra i cristiani. Colui che in Oriente
aveva avuto modo, in circa vent'anni, di misurare l'abisso e lo squallore della
divisione fra i credenti nello stesso Cristo, sapeva bene che anche un Concilio
prevalentemente «pastorale» - cioè volto a chiarire e risolvere
soprattutto i problemi interni della Chiesa - non poteva non porsi anche il
problema dei contatti con i «fratelli separati»: perché una
sola è la Chiesa di Cristo, e anche i problemi «interni» di una
confessione coincidono sempre almeno nella sostanza, coi problemi di tutte le
altre.
Papa Giovanni aveva intuito, e si accingeva ad operare, nel segno
della speranza. Della speranza teologale, virtù coessenziale al credo
cristiano. Nessuno più di lui - arricchito nativamente da un profondo ed
inviolabile ottimismo naturale - era in grado di dare all'ottimismo naturale suo
e di tutti gli altri «uomini di buona volontà», il sigillo e il
battesimo della speranza cristiana che resta misterioso dono di
Dio.
Perché negare che molti, proprio attorno a Papa Giovanni, non
tardarono, dopo il primo stupore, a manifestare il loro disappunto ed il loro
pessimismo. L'idea sembrava loro temeraria, non avevano lo stesso ottimismo
naturale, e la speranza, probabilmente, la spendevano per cose meno
difficili.
Ma questo era il meno che potesse accadere. A Concilio Vaticano
II concluso si è visto che il dibattito tra i padri, inevitabilmente
schierati in gruppi di diverso vedere e sentire, se non addirittura nettamente
opposti gli uni agli altri, è stato assai meno drammatico, molto
più onesto, da ambedue le parti, ad esempio, che quello del Vaticano I.
Qualcuno ha temuto lo scisma, qualcun altro l'eresia. E non ci sono stati
né scismi né eresie, mentre dal Vaticano I almeno uscirono,
ostinati fino ai nostri giorni, i «vecchi cattolici».
La scelta
del proprio magistero, in Papa Giovanni, è stata dunque un atto di
umiltà e un atto di coraggio. E un atto di fedeltà alla propria
vocazione di «servizio», un atto di stima assoluta per i talenti,
l'esperienza, la dottrina e lo zelo di tutti i vescovi. Il primo segno del vero
maestro non è forse quello di rispettare in partenza le idee degli altri?
Papa Giovanni ha rispettato le idee e i punti di vista di tutti. Durante la
prima sessione del Concilio non è intervenuto che una volta a decidere in
favore della maggioranza - cioè in favore di una regola liberamente
scelta da tutti - e si è dato il caso che proprio con quell'intervento (a
proposito dello schema sulle «fonti della Rivelazione») il Concilio
uscisse da un'impasse che ne minacciava la libertà e l'andamento
legittimo.
Alden Hacht, un protestante, così commenta, dal suo punto
di vista, questo consesso universale: «L'annuncio del Concilio ecumenico
suscitò in tutto il mondo un tale fervore di speranze e d'iniziative, che
forse nemmeno lo stesso Papa aveva immaginato. Tutti i cristiani già da
tempo stavano facendo tentativi per l'unione, di fronte alla minaccia sempre
crescente del comunismo ateo. Da parte loro gli anglicani, i protestanti, e
qualche chiesa di rito greco-ortodosso avevano fatto approcci tra loro in vista
dell'unità, ma siccome lasciavano fuori una buona metà di
cristiani nel mondo, i loro tentativi non sembravano destinati ad avere
successo. Perciò l'annuncio di un Concilio ecumenico sollevò una
ondata di entusiasmo fra tutti i cristiani nel mondo, indescrivibile e
illimitato, poiché nessuno rifletteva sulle difficoltà delle
questioni teologiche che si opponevano alla completa realizzazione di questa
unione».
Le difficoltà non sfuggivano, comunque, alle parti
più direttamente e, magari, apertamente polemiche delle varie Chiese. Le
videro e se le prospettarono, realisticamente, com'era giusto, soprattutto
alcuni cardinali, che non ne fecero mistero, pur esprimendo le loro riserve nel
giro delle classiche circolazioni del linguaggio curiale.
È ancora Hacht
che scrive: «In realtà, la responsabilità era così
grave che non pochi cardinali del Sacro Collegio furono contrari o molto
pessimisti. Temevano che, avendo il solo annuncio del Concilio suscitato tante
speranze, tutto il lavoro del Concilio stesso sarebbe stato considerato un
fallimento se si fosse ottenuto solo qualche risultato. E sapevano benissimo che
sarebbe stato impossibile risolvere tutti i problemi riguardanti il ritorno dei
dissidenti sotto un'unica Chiesa e quindi sarebbe stato già un buon
risultato se si fosse ottenuto qualche riavvicinamento. Lo stesso card. Tardini,
che in un primo tempo sembrava favorevole all'idea di un Concilio,
successivamente avrebbe voluto rimandarlo ad altri tempi. Ma Papa Giovanni non
era di questo parere. Anzi, il favore popolare col quale era stato accolto il
suo annuncio lo rafforzava nella convinzione di agire per il meglio. Beninteso,
non si nascondeva le difficoltà, ed era il primo ad ammettere che sarebbe
stato assurdo pensare di ottenere immediatamente una unione completa per quanto
riguardava i lavori del Concilio il suo punto di vista, che doveva costituire la
direttiva principale, era molto semplice: far sì che i cristiani non si
guardassero più fra loro con diffidenza ma desiderassero invece la
conciliazione».
Qualcuno sperò che col tempo l'idea cadesse
dalla mente del Papa. Evidentemente non conoscevano Roncalli, non sapevano che
se era disposto a rinunziare con pronta umiltà a vedute personali - ne fa
fede chiaramente Il Giornale dell'Anima - altrettanto era irremovibile per
quelle che sapeva essere ispirazione di Dio. Certo, si sentì molto solo,
nella sua stessa casa; e non gli saranno mancate le ore della tristezza, se non
dell'angoscia; ma tutto ciò lo ha portato da solo, con pudore e silenzio,
lasciandone trapelare nel diario solo quanto occorreva per tener presenti a se
stesso gli impegni che anche le delusioni gli imponevano d'approfondire e
santificare.
D'altronde sapeva d'aver con sé la grande speranza dei
poveri, dei semplici, nella Chiesa e fuori della Chiesa; ed era su costoro che
contava, anche se erano proprio loro a non potersi render conto della fatica
della grande impresa. Quello che nei secoli passati erano state, per la
«difesa» del cristianesimo, le crociate, adesso, per la dilatazione
della Chiesa e per l'evangelizzazione di tutti gli uomini, lo era il Concilio,
cioè l'esatto contrario delle crociate d'ogni genere, come vedremo meglio
più avanti. Fedele al suo proposito personale di «cercare piuttosto
ciò che unisce che ciò che divide gli uomini», Roncalli,
diventato Papa Giovanni, aveva adesso la gioia di poter applicare su scala
universale quel metodo che scaturiva insieme dal suo ottimismo e dalla sua buona
volontà.
Giovanni XXIII presiede la Cappella papale a San Paolo nel 1959
UN CREATORE DI CULTURA
Immediatamente non si rese conto nemmeno lui -
è molto probabile - di che cosa stava liberando e mettendo in
circolazione nella Chiesa. Sapeva soltanto che su molte cose fondamentali, di
qua dai dogmi, nel libero esercizio della dottrina e dei metodi che da essa
debbono scaturire a seconda dei tempi, era necessario un aumento di teologia, di
cultura viva. Egli non era un uomo di cultura nel senso corrente, beato lui.
Secondo la felice distinzione del card. Lercaro, egli era più un
«creatore» che un «consumatore» di cultura.
Il
professore di patrologia, lo studioso dei movimenti sociali della Chiesa, lo
storico e il biografo di san Carlo Borromeo e di Radini Tedeschi, aveva fatto
soltanto il «noviziato» della cultura, prima di ascendere sulla
cattedra di Pietro. La cultura, cattolica e non cattolica, gli diventava
debitrice adesso, dal momento della indizione del Concilio, come gli sarà
ancora debitrice più tardi, al momento della Mater et Magistra e
soprattutto della Pacem in terris.
Il card. Lercaro ha precisato molto bene
questo trovarsi a perfetto agio di Papa Giovanni nella verità, e quindi
anche di fronte ai rischi di cui non va mai esente la cultura viva:
«Nonostante ogni nostra disattenzione e ogni nostro rifiuto, egli non ha
rinunziato mai, nemmeno per un momento alla pretesa di insegnare, in base alla
convinzione espressa nel primo anniversario dell'elezione: "È su questa nave
che si dirige la vita e la storia del mondo: è su questa continuazione di
luce, di forza e di grazia che si perenna tutto ciò che, anche da un
punto di vista semplicemente umano, è irradiazione di scienza, di
progresso, di verace civiltà cristiana". Se egli avesse avuto in grado
eccezionale questa convinzione e questa pretesa di dover essere e di poter
essere il Dottore universale, come avrebbe potuto osare di convocare dopo cento
anni un nuovo Concilio, a meno di tre mesi dalla sua elezione? Chi, al suo
posto, per quanto sicuro fosse della bontà della cosa, non avrebbe
piuttosto pensato di doverci riflettere ancora, almeno fino a quando non avesse
potuto rendersi meglio conto dello stato reale della Chiesa e delle possibili
conseguenze di una decisione tanto capitale ed insolita? Non si avverte
abbastanza che, già per sé, questo solo confronto di date pone in
termini stringenti un dilemma tremendo: o Papa Giovanni è stato un
precipitoso temerario, la cui incultura e inesperienza arrivano al paradosso: e
allora non sarebbe più possibile parlare seriamente di una sua
santità, perché un solo fatto di questa dimensione investirebbe
negativamente tutta la sua personalità spirituale e religiosa,
distruggerebbe tutto il castello delle sue supposte virtù morali e
teologali; o veramente Papa Giovanni ha fatto questo con un'audacia calcolata,
che pur non potendo ovviamente prevedere tutti i dettagli e neppure i contenuti
materiali di certi sviluppi futuri, però sostanzialmente coglieva i nodi
teologici e storici della situazione ecclesiale e dell'arco del suo pontificato:
e allora bisogna ammettere che egli era conscio di poter contare, non solo sulla
sincerità dell'ispirazione che lo muoveva, ma anche sulla fondatezza di
alcune sue tesi di dottrina e di alcuni suoi giudizi storici come capaci di
mediare sul terreno concreto e istituzionale i giganteschi problemi che la sua
decisione coinvolgeva».
«LA SANTA FOLLIA»
Qualcuno ha parlato, e continua a parlare, a
proposito del Concilio, anche davanti alle conseguenze positive innegabili che
ha avuto nelle sue quattro sessioni e nelle sue sedici leggi, di "santa follia",
dando più peso al sostantivo che all'aggettivo. Ma un giudizio del genere
non fa che confermare l'urgenza della grande riforma cattolica già in
atto. Occorreva riporre in causa non solo certe strutture ed alcuni metodi
sconfessati o superati dalla storia e dal tempo; occorreva soprattutto chiarire
alla radice certe verità non a sufficienza sviluppate in passato, in modo
che proprio all'interno della Chiesa non si dovesse continuare a credere
debolezza la forza e forza la debolezza, ragione l'imposizione e torto il
silenzio.
Se "follia" c'è stata - e, per fortuna, rimane - si tratta
di una "follia" genuinamente evangelica che tanto la maggioranza dei credenti
che la maggior parte degli uomini hanno riconosciuto come il quid che
l'umanità attendeva, più o meno consapevolmente, dalla Chiesa del
nostro tempo. Come tutti i veri testimoni, come tutti i "profeti disarmati",
anche Papa Giovanni, soprattutto con il Concilio, ha rinnovato quello "scandalo
evangelico" che pone sempre da capo la Chiesa in "servizio" per tutti gli
uomini.
D'altronde, la decisione del Vaticano II non è mai stata,
nel pensiero di Papa Giovanni, una sfida o una squalifica per qualcuno e per
qualcosa. È questo che conta, che rende legittimo il processo irreversibile e
fecondo, e che ha fatto "conciliare" la Chiesa, senza più alcun pericolo,
come nei secoli passati, di "conciliarismo".
È stato Papa Giovanni stesso
a togliere certi timori: «Noi non vogliamo intentare un processo al
passato. Non vogliamo nemmeno dimostrare quel che era giusto e quel ch'era
invece sbagliato. Ma quel che vogliamo dire è questo: ritorniamo insieme;
poniamo fine alle nostre divisioni».
Papa Giovanni ammetteva ed
ammirava, negli uomini che dovevano rispondere di organismi culturali e
disciplinari, la prudenza massima, qualche volta intransigente. Personalmente,
però, il suo "miracolo" - come il mondo lo ha giudicato e definito -
continuava ad essere quello di prendere contatti, di rimuovere inutili ostacoli,
di abolire termini e linguaggi che potevano continuare più a dividere che
ad unire.
Anche nelle udienze solenni ci tenne a rivelare un carattere in
qualche modo ecumenico. Nemmeno un mese dopo l'elezione, ricevette Mohamed Reza
Pahlevi, imperatore dell'Iran: era il 1° dicembre 1958. Si trattava di un
musulmano, che aveva chiesto di poter presentare i suoi omaggi al capo dei
cattolici, ed era stato subito esaudito. Papa Giovanni si ricordava bene che
tono avevano sempre finito per far assumere alla folla udienze del genere nel
passato, quando la lotta anticlericale non cercava che di poter insultare il
Papa e la Chiesa.
Un altro imperatore musulmano, molti anni prima, era
stato in udienza in Vaticano; ma la folla che aveva assistito al suo fastoso
passaggio in piazza san Pietro aveva subito contrapposto i due troni,
addirittura le due religioni, gridando ripetutamente: «Viva lo
Scià!», «Abbasso il Papa!».
Questa volta dovevano
essere cambiate davvero molte cose: la folla, riunita sulla piazza, batteva le
mani a tutti e due, non gridava "abbasso" a nessuno. Papa Giovanni aveva
cominciato a farsi conoscere con le prime novità di spirito e di termini,
alle quali il popolo è sempre più attento e sensibile di quanto
non si pensi; lo Scià era molto popolare, non tanto perché se ne
conoscessero alcune impostazioni di coraggiosa riforma sociale del proprio paese
- riforma che sarebbe andata precisandosi e circostanziandosi negli anni
seguenti - quanto perché marito della "imperatrice dagli occhi tristi",
che poco dopo avrebbe ripudiato per incapacità a dargli un erede al
trono.
Papa Giovanni trovò modo di mettere immediatamente a suo agio
il visitatore, rammaricandosi oltre tutto, di non aver fatto una visita
nell'Iran quand'era stato Delegato in Turchia. Prese atto dell'illuminata
benevolenza con cui in quel paese l'imperatore trattava i gruppi e le
associazioni cattoliche. L'udienza non affrontò nessun problema
fondamentale, ma rivelò quel calore umano che vale sempre come premessa
ad ogni possibilità di collaborazione su ogni questione
importante.
Durante quei cinque anni di pontificato sarebbero venuti in
udienza innumerevoli altri capi di Stato e uomini politici responsabili della
politica internazionale. E tutti avrebbero trovato un uomo un "uomo mandato da
Dio" sempre capace di riaccendere in essi, nella maniera più discreta ed
immediata, il senso delle cose fondamentali. Papa Giovanni non ha sempre dato
alle proprie udienze un rigoroso significato prestabilito: quando non ne avevano
né potevano averne, bastava ad esse il valore d'incontro fra due uomini
responsabili di altri uomini; quando lo avevano quasi automaticamente, un
significato e un valore, Papa Giovanni sapeva dare al fatto e alle parole con
cui si realizzavano una misura sempre giusta. Non ha mai fatto calcoli, non ha
mai strumentalizzato quegli incontri, che per lui, così curioso ed
insieme rispettoso degli uomini, valevano prima di tutto per sé stessi e
lo riempivano sempre di ricordi, di entusiasmi. Papa Giovanni ha avuto in dono
una limpida e cordiale fantasia, e l'ha usata come un grande soccorso per
superare e trasfigurare, molte volte, il peso degli obblighi, le leggi della
routine diplomatica e del protocollo. Molti dei suoi più illustri
visitatori sono stati colti dal fotografo con un grande sorriso sul volto: il
Papa aveva trovato modo di sbloccare una situazione che tendeva per sé a
farsi rigida più del dovuto.
Il sorriso più squillante
è rimasto, nelle fotografie di documentazione, quello del presidente
americano Dwigt Eisenhower. Non è facile sapere con esattezza
perché il presidente si sia lasciato andare a quella risata, tutta
americana. Eisenhower ricordò al Papa il loro primo incontro a Parigi;
allora uno era generale, l'altro Nunzio. «Abbiamo fatto della strada! -
commentò sorridendo Papa Giovanni. - Voi siete presidente di una grande
repubblica, io il vescovo di Roma!». Si disse lieto, poi, che il figlio di
Eisenhower, che accompagnava il padre, si chiamasse Giovanni come lui, e, con
protocollo del tutto nuovo, lo incaricò di portare i suoi saluti al
presidente della repubblica turca.
IL PRIMO NATALE DEDICATO AI BAMBINI
Il suo primo Natale da Papa Roncalli lo volle
dedicare anche ai bambini; e scelse quelli più adatti a simboleggiare
l'aristocrazia del regno di Dio: i bimbi ammalati dell'Ospedale Gesù
Bambino. Due ospedali raccolsero quel giorno la testimonianza della sua
pietà paterna e delicata ma certo in quello di Gesù Bambino il suo
cuore s'aperse con particolare slancio a comunicare coi piccoli, a consolarli e
benedirli; e non mancò di far sbocciare il sorriso anche sulle loro
labbra. Passo fra i lettini bianchi, si fermò presso ciascuno,
intavolò una conversazione piena di confidenza e di
semplicità.
I bambini hanno sempre occupato un posto di privilegio
nel cuore di Papa Giovanni. Non tanto perché egli si sia trattenuto coi
bambini più che con gli altri. Chi ne facesse un amico particolare dei
fanciulli, non sarebbe forse del tutto nel vero. Ha piuttosto saputo trovare il
cuore dei piccoli di istinto, più che con manifestazioni esteriori di
tenerezza, con carezze e slanci visibili. Papa Giovanni non si è mai
permesso di abbracciare un bambino, e non l'ha fatto nemmeno con la piccola
Chaterine Hudson, condannata a morire di cancro. Non occorre credere che per un
uomo come Roncalli occorressero i segni tradizionali della tenerezza e
dell'affetto per conquistare i piccoli e entrare con naturalezza nel loro cuore
e nel loro linguaggio. L'infanzia interiore - che è stato il dono intimo
la fedeltà più profonda a cui Papa Giovanni è rimasto
fedele per tutta la vita - non ha bisogno di questo metro: ha strumenti ed
intuizioni, rapporti e possibilità di sintonia intima che sfuggiranno
sempre ai più. Gli accenni ai bambini sono nei documenti del Papa, o
tradizionalmente entusiastici, come nella lettera al fratello Zaverio, o
evangelicamente simbolici. L'infanzia diventa misura dello spirito, richiamo
all'innocenza, esame di coscienza sulla grande parola del Signore: «Se non
tornerete come fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli».
E non
sembra affatto un caso che in una delle ultime udienze pubbliche concesse in san
Pietro il 4 maggio 1963, Papa Giovanni abbia ripetuto il simbolo dell'infanzia
come misura del cristiano ideale: «Dicono che quando si diventa vecchi e
stravecchi si torna un po' bambini. Che bello tornare bambini! Se non si
possiede quell'innocenza e quella semplicità, è più
difficile entrare nel Regno dei Cieli!». Il vecchio Papa ultraottantenne
salutava la Chiesa e la vita con un'immagine evangelica a cui era sempre rimasto
fedele, e nella quale, più passavano gli anni e più aveva saputo
travasarsi con perseveranza e letizia.
L'innocenza ferita poi lo commuoveva
come un mistero che occorre accettare come tutti i misteri, ma che chiede al
cuore del credente una partecipazione spirituale assai più immediata,
secondo la parola del Signore che dice: «Quello che avete fatto a uno di
questi piccoli, è a me che lo avete fatto».
Così nelle
funzioni penitenziali di san Lorenzo al Verano, il 1° marzo, e di santa
Prisca, il 24 marzo; l'esempio della penitenza quaresimale sbocciava poi
nell'esempio della gioia pasquale, che gli riuniva attorno la maggior parte del
gregge nella gloria dell'alleluia. Era questa la sua pedagogia di vescovo, e
sempre collegata, da scelte precise e inattese, con la pedagogia di pontefice
universale. Toccherà allo storico più provveduto e documentato, al
momento giusto, non trascurare questo perenne rapporto che Papa Giovanni ha
saputo stabilire e mantenere nella propria vita, e darne la misura esemplare dal
lato pastorale, e indicarne il valore ascetico e pedagogico nello stesso
tempo.
Roncalli non ha fatto solo il Papa, perché era convinto che
solo facendo bene il Vescovo - il Vescovo della sua città specifica, il
pastore del suo popolo romano - gli diventava sempre più possibile fare
il pastore di tutti i credenti, e diventare il padre di tutti gli uomini,
secondo la investitura ricevuta con l'elezione.
Il suo occhio restava un
occhio realistico, e la sua parola toccava i problemi più scottanti con
discrezione, ma anche con precisione. Nell'udienza concessa il 30 gennaio 1959
all'Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, presentatigli dal card. Siri,
Papa Giovanni disse: «Sappiamo bene che non mancano preoccupazioni circa i
problemi gravi per quanti partecipano alla produzione industriale: problemi di
coscienza e problemi di fraternità umana e cristiana. Erroneo e funesto
nelle sue conseguenze - diceva già il Santo Padre Pio XII il 7 maggio
1949 - dura il pregiudizio disgraziatamente troppo diffuso, che vede nella
produzione un contrasto irriducibile di interessi divergenti... Imprenditori,
dirigenti, lavoratori non sono, non debbono essere, aggiungiamo noi, antagonisti
inconciliabili. Sono cooperatori in un'opera comune, che domanda prima di tutto
mutua comprensione e sforzo sincero di superamento della tentazione e
dell'incentivo di cercare ciascuno il proprio tornaconto, a detrimento degli
altri partecipanti al comune sforzo e lavoro».
Il 10 febbraio,
ricevendo i predicatori della quaresima per il rituale incontro, si premurava di
offrire loro soprattutto un invito alla semplicità nell'annunzio della
parola di Dio: «La semplicità è il grande dono del
predicatore, che ricerca la via più sicura per toccare il fondo delle
coscienze. Semplicità non è parlare a vanvera, o a braccio, come
si dice a Roma: essa richiede seria preparazione di preghiera e di studio. Essa
è esatta direzione del pensiero al fine che si vuole raggiungere; misura
del tempo messo a disposizione, tanto quanto basta all'istruzione dei fedeli, e
non alla delizia dell'ascoltare se stessi. La semplicità non accarezza la
preoccupazione di fare bella figura né di ricercare la parola tornita,
che fa scattare l'applauso: essa rende anzi timorosi di ciò che
può arrestare il moto della grazia nelle anime. Ricordate le parole di
san Bernardo che dice come preferisca ascoltare la voce del predicatore che
muova non all'applauso per se stesso ma al pianto chi ascolta».
Ma era
soprattutto la carità che desiderava tralucesse dalla parola di chi
annunzia il Vangelo: «Occorre, infine, ripeterlo a noi che dobbiamo essere
gli apostoli più convinti della carità? Esserlo, diremmo,
ostinatamente?».
Giovanni XXIII con il neo-eletto vescovo Monsignor Righi Lambertini
Visita pastorale di Giovanni XXIII in una parrocchia romana